Le stelle? Ora in albergo contano quelle degli chef

by Valentina Neri | 28 Dicembre 2017 7:00

Se c’è una battaglia che si combatte a suon di padelle borbottanti e piastre che sfrigolano è quella che hanno ingaggiato gli alberghi nei loro ristoranti nel tentativo di svecchiare il modo di proporre la gastronomia. Con la crescente popolarità degli chef, grazie soprattutto a programmi tv e libri di ricette, l’innovazione ha potuto fare capolino aggiornando non solo i menù dei grandi alberghi ma addirittura di navi da crociera e linee aeree, le più bistrattate sul tema food.

Nonostante uno degli chef più importanti del mondo, Gordon Ramsey, 6 stelle Michelin, abbia dichiarato di rifiutarsi di mangiare a bordo degli aerei, proprio perché conosce le modalità di preparazione e conservazione del cibo per questo tipo di catering, i vettori di mezzo mondo continuano a ingaggiare cuochi di livello. Si va da  American Airlines che ha chiamato quattro chef per preparare menu su diverse tratte – Maneet Chauhan, Mark Sargeant, Sam Choy e Julian Barsotti – ad Air France che oltre ai tanti chef assoldati, alcuni dei quali anche per l’economy, non ha esitato ad assumere lo stellato Daniel Boulud. Mentre il più stellato d’Italia, con 7 macaron Michelin, Bruno Barbieri, firma la proposta culinaria a bordo delle navi di Costa Crociere dove si esibisce anche in showcooking e lezioni con i viaggiatori.

Ma è in hotel che il processo di svecchiamento sta dando i risultati più interessanti perché è nella cucina metropolitana che il livello va innalzandosi da anni. Specie in città come Roma e Milano dove, a dispetto dei ristoranti classici, sono sempre di più i grandi alberghi che investono nella ristorazione stellata, questo nel tentativo di rivalutare la cucina servita in hotel, vista in passato come spersonalizzata perché troppo internazionale, dunque, buona solo per i turisti.
Un concetto in completa mutazione, grazie all’intuito di alcuni imprenditori e gestori di alberghi che «investendo maggiormente su proposte culinarie, collaborazioni d’eccezione, stile sempre più raffinato e servizio impeccabile, hanno fatto acquisire ai ristoranti una loro identità permettendogli di diventare un punto di riferimento sia per gli ospiti che per i clienti locali. Una rivoluzione che nel panorama internazionale è ormai consolidata da anni, e che si sta affermando anche nel nostro Paese», spiega Anna Gricini, regional director of sales & marketing Italy di Rocco Forte Hotels.

Insomma, nel tentativo di rendere più produttivo il ristorante di un albergo, spesso al di sotto delle aspettative dei gestori, questi ultimi hanno capito che affidarsi a nomi di pregio, spesso anche famosi, poteva fare la differenza: così la proposta culinaria si sarebbe fregiata di brio facendo dimenticare quel pregiudizio per cui in hotel non si mangia mai se non costretti. È grazie agli chef famosi se sempre più spesso persone che risiedono in città varcano la soglia degli alberghi per mangiare assieme agli ospiti-viaggiatori nei ristoranti dell’hotel. Un cambiamento delle abitudini che anche se lento ha portato già i suoi frutti, ovvero le aperture di diversi esercizi stellati.

Negli ultimi tempi in particolare a Roma, sono molti i ristoranti all’interno degli hotel a destare curiosità e meritarsi complimenti. E non c’è bisogno di chiamarsi Heinz Beck, unico tre stelle Michelin della Capitale, e lavorare a La Pergola del Cavalieri Hilton. C’è l’Imago dell’Hotel Hassler gestito da Francesco Apreda, La Terrazza dell’Hotel Eden di Fabio Ciervo, l’Aroma di Palazzo Manfredi di Giuseppe Di Iorio e All’Oro di Riccardo Di Giacinto da poco trasferitosi nell’Hotel The H’All. Tutti con una stella Michelin.

«È nata una sinergia – spiega Marco Lombardi, critico gastronomico de Il Gambero Rosso – quella tra gli albergatori, che possono partecipare se non assumersi per intero il rischio imprenditoriale di un ristorante, e gli chef che in questo modo sono alleggeriti da faccende amministrative e gestionali. Oppure non devono reperire le risorse per aprire una struttura da zero. A guadagnarci, poi, è anche il cliente che entrando in un ristorante stellato si aspetta un’esperienza di lusso ma senza pagare tanto quanto sarebbe necessario per soggiornare in quello stesso albergo».

«La collaborazione con un grande chef permette a un hotel di distinguersi sulla scena della ristorazione con la possibilità di offrire una proposta enogastronomica originale – gli fa eco Gricini – L’hotel potrà contare anche sulla reputazione dello chef per attrarre i suoi ospiti già in casa ed esterni, ma anche per lo chef è un’occasione per proporre la sua idea di cucina in un contesto internazionale d’eccellenza».

Quello che si compra sedendosi al tavolo di uno di questi chef è soprattutto un momento deluxe che sembra somigliare sempre più a uno status symbol. E ridefinire il concetto di lusso che un certo albergo vuole trasmettere. Come nel caso della catena Rocco Forte Hotels dove Fulvio Pierangelini, chef stellato e responsabile food&beverage del brand, «ha proposto un’idea culinaria di qualità che va dalla colazione al cioccolatino della buonanotte: non singoli ristoranti, ma un’offerta complessiva che possa trasmettere emozioni agli ospiti».

Ma quanto è difficile adattare la propria creatività a un brand specifico per cercare di appagare le voglie dei clienti internazionali. Secondo Andrea Berton, proprietario del Berton a Milano e detentore di due stelle Michelin (di cui una, caso rarissimo per un ristorante aperto da meno di un anno, il Berton al Lago presso l’hotel Il Sereno sul lago di Como), «non è difficile se tra chef e gestore c’è una filosofia comune. Se non avessi trovato una reciprocità tra le mie idee su approccio lavorativo e qualità non avrei accettato la proposta de Il Sereno. Chi viene qui vuole un’esperienza al top in tutto e a differenza del ristorante classico solo in hotel posso accontentare il cliente sull’offerta food a 360 gradi: dalla colazione, passando per il light menù da piscina, fino alla cena».

Più articolata la visione di Andrea Fusco per 7 anni stella Michelin che proprio per aver accettato la sfida di rivoluzionare la cucina al Bernini Bristol si è visto ritirare la stella, in attesa di poter valutare per più tempo la sua performance in una struttura nuova. Dopo anni passati a sfamare i romani del quartiere Appio-Claudio con il suo Giuda ballerino!, e a lavorare in eventi internazionali di prestigio come il Festival di Cannes, ora Fusco segue l’offerta enogastronomica al Perovino, ristorante del Westin nella lussuosa Costa Navarinos, in Grecia, e sul roof garden del Bernini Bristol (Sina Hotels, ndr) dove ha trasferito il Giuda ballerino!

«Intendersi con la direzione è stato difficile – racconta lo chef – il rapporto di fiducia uno lo instaura prima e più facilmente con la proprietà che è poi quella che ti cerca e sceglie. Qui in hotel il locale non è mio in senso letterale, ma io lo sento tale e così anche la mia brigata. Se cambio qualcosa del menù non devo riportarlo a nessuno. Più complesso al Westin dove le variazioni vanno sottoposte a una decina di persone. Ma se c’è intelligenza da parte di tutti si trova sempre il giusto equilibrio. Ormai gli alberghi hanno capito che il ristorante di grido aiuta a riempire le camere: in fondo gli alberghi sono un’impresa come le altre, devono guadagnare per poter restare sul mercato e migliorarsi».

E in effetti i risultati non si sono fatti attendere: nel 2016 il Giuda ballerino! al Bernini ha raddoppiato il fatturato rispetto agli incassi del ristorante attivo in hotel l’anno precedente e fatto abbassare il food cost a 24 punti dai 33 iniziali. Oggi ci sono 62 dipendenti, tra stagionali e a tempo indeterminato: erano 44 all’arrivo di Fusco. In pratica una piccola rivoluzione. Che sia l’inizio di un’evoluzione in cui gli alberghi diventano meno luoghi di passaggio e sempre più posti per il tempo libero? Anche dei residenti.

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