La falsa partenza delle startup italiane

by Gabriele Simmini | 2 Settembre 2016 17:20

Il fenomeno è noto da tempo: idee di business e nuove aziende che spuntano come funghi in piena stagione. Ma le startup in Italia soffrono nell’affermarsi come nuovo modello di business, rifugiandosi spesso in nicchie di mercato o come spin-off di ricerche universitarie che non riscuotono altrettanto successo. E anche il settore turistico non è immune da questi problemi.
I numeri parlano chiaro: secondo l’European Accellerator Program, nel 2015 in Italia ci sono oltre 5.800 startup e 41 incubatori d’impresa certificati. Se da un lato, però, il dato dei professionisti che creano startup cresce al ritmo della media europea, dall’altro solo 1 su 60 riescono ad affermarsi con successo sul mercato.

In Italia, il 34% degli startupper ha tra i 40 e i 49 anni, mentre il 32% è composto da imprenditori con età tra i 30 e i 39. Spesso sono laureati di secondo livello o con master. Il 64% del totale, quindi, non è giovanissimo: un aspetto in controtendenza rispetto alla Silicon Valley negli States o al Nord Europa.
Il mercato dell’innovazione nazionale, quindi, ha un bilancio in rosso e la sofferenza è dovuta anche e soprattuto a causa dei pochi investimenti. Le banche diffidano dal concedere finanziamenti e i bandi pubblici sono spesso complessi e con formule di accesso al credito molto articolate.

Pochi investimenti privati
Secondo Startup Italia, che riprende i dati dell’European Startup Monitor, i capitali iniziali arrivano dalle tasche dei fondatori o dalle loro famiglie (il 69,1% ha investito i propri risparmi e il 25,1% quelli di amici o familiari). Solo il 12,6% accede ai venture capital, circa l’8% si affida alle banche e solo il 3% dichiara il crowdfunding come forma di finanziamento.

L’Italia, invece, spicca tra gli incubatori. Più di una startup su 4 passa da società e aziende che fanno da “tutor” o ne curano il processo di concezione e sviluppo dell’idea imprenditoriale. Il numero è sovradimensionato rispetto alla media europea, soprattuto se si considera la quasi totale assenza di “business angels” – come da modello Usa – che invece garantiscono un approccio più pragmatico su investimenti e  sviluppo del prodotto.

Il punto sul turismo
Anche il settore turistico soffre della stessa malattia. Le startup italiane seguono il modello internazionale per quanto riguarda i prodotti: dalle guide digitali su mobile alle app di booking integrati, dalle piattaforme B2B per hotel ai progetti di turismo “creativo”. Ma l’abbondanza di servizi e offerte delle nuove aziende italiane si scontra con un mercato in difficile evoluzione e spesso sono proprio le innovazioni tecnologiche che pagano dazio.
Secondo Startup Turismo nel 2015, il 48% delle startup di settore ha generato ricavi entro i 10mila euro, il 27% si attesta tra i 10 e i 50mila euro, solo il 4% raggiunge tra 50 e 100mila euro. I ricavi tra 100 e 200mila euro comprendono il 15% delle aziende e solo il 2% supera i 500mila euro.
Nella realtà italiana, quindi, le nuove imprese turistiche hanno un problema in più: un mercato che è governato dalle grandi società di social travelling (Airbnb, Blablacar, etc) e il rischio – per le nuove imprese – di dotarsi di un modello si business non funzionale alle necessità dei turisti che conduce a una crescita scarsa. Ovvero, occorrerebbe calibrare lo scopo di una startup orientandola al fatturato e non solo nell’offrire un servizio che spesso è già presente sul mercato con zero commisioni o in free app.

Startup come ammortizzatore sociale?
Spesso, inoltre, molte startup nascono da progetti di ricerca universitari che incontrano l’investimento iniziale grazie ad attività di spin-off, ma stentano a diventare un’attività che crea valore, fermandosi alla fase di sostenibilità economica solo per gli stessi startupper.
Dalle pagine del magazine Vita, infatti, l’appello è quello di Fernando Napolitano, manager e investitore, fondatore dell’Italian Business and Investment Initiative: «Il problema è che in Italia la startup è diventata un ammortizzatore sociale. Il coinvolgimento del pubblico, non è di per sé sbagliato, anche in Silicon Valley, vi sono stati incentivi alla crescita dell’ecosistema, il fatto però è che, poi, sono arrivati enormi capitali privati e questo in Italia non accade».

In Italia, invece, crescono incubatori e acceleratori d’impresa, spesso di dimensione locale e controllati dal pubblico piuttosto che da capitali privati. In parole povere, quindi, tante idee ma poco sviluppo, poca exit (come viene riconosciuta in gergo la capacità di una startup di essere acquisita o venduta da una società più grande).

Sempre il magazine Vita rileva che negli ultimi 5 anni le exit italiane sono state 28, contro le 37 delle startup spagnole, le 75 francesi, le 85 del Regno Unito e le 125 della Germania. Un confronto senza pari dovuto a diversi elementi: in Italia non pensiamo in grande, non facciamo riferimento a un mercato unico europeo ma alla nicchia italiana, non c’è la predisposizione a vendere – come invece è prassi negli States – e i business plan sono spesso orientati a creare un nuovo prodotto invece che “dare al consumatore il prodotto che desidera”.

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